Paolo Ghilardi nasce nel 1930 a Bagnatica, in provincia di Bergamo, in una famiglia dove la madre sostiene e stimola la passione per l’arte, svolgendo un ruolo importante nella sua formazione. La sua è una famiglia molto numerosa dove le arti sono presenti, infatti il fratello maggiore è diplomato in pianoforte al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
attività accademica
Studia all’Istituto tecnico industriale e dagli anni Cinquanta inizia a lavorare come disegnatore meccanico indipendente per Dalmine e per Innocenti. Nel frattempo, frequenta i corsi serali di Achille Funi, allora direttore dell’Accademia di belle arti Giacomo Carrara di Bergamo, approfondendo e completando la sua formazione artistica.
Nel 1968 inizia a insegnare “Discipline pittoriche” al Liceo artistico statale di Bergamo, incarico che mantiene fino al 1986. Nel corso degli anni Ottanta, su incarico del Comune di Bergamo, si occupa del decoro urbano del centro storico realizzando notevoli recuperi e gli viene affidato, inoltre, il ruolo di consulente per il piano del colore della città.
Il “Piano del colore” è uno strumento ritenuto di grande importanza dalle amministrazioni comunali più avvedute, in quanto l’armonia cromatica delle architetture e degli elementi ambientali delle città significa dare una visione identitaria e culturale precisa dei luoghi dell’abitare. Il tema del colore, interesse prioritario di Ghilardi, si sviluppa in questo modo anche oltre la tela.
Dal 1977 al 1980 insegna anche “teoria del colore e pittura” all’Accademia di belle arti Giacomo Carrara di Bergamo.
percorso artistico
Le prime partecipazioni artistiche di rilievo sono: il premio Dalmine nel 1953 e il premio San Fedele a Milano nel 1954 dove presenta opere ancora legate a un linguaggio figurativo dove però l’attenzione inizia a concentrarsi sulle geometrie, sulla struttura delle forme.
Nel 1967 è invitato alla IV Biennale d’Arte di Cinisello Balsamo e tiene la sua prima mostra personale alla Galleria Mainieri di Milano. Nel 1968 partecipa alla II Internazionale d’arte grafica di Ancona e tiene una mostra alla galleria Minerva di Mantova.
Nel 1969 a Calice Ligure conosce il gallerista Remo Pastori e Maria Cernuschi Ghiringhelli, gallerista de Il Milione di Milano, in questo ambiente ha la possibilità di incontrare varie personalità dell’arte con i quali stabilisce rapporti di amicizia. Ricordiamo Emilio Scanavino, Carlo Nangeroni, Mauro Reggiani, Jean-Michel Folon, Jean Leppien, Manzoni della galleria La Polena e Martano dell’omonima galleria di Torino. Per l’amico Scanavino progetterà la cappella funebre a Celle Ligure.
Dai suoi esordi, caratterizzati dall’adozione di un linguaggio ancora figurativo, i suoi orizzonti si aprono a ricerche volte decisamente tradizione geometrica europea con un interesse sempre più consapevole verso l’astrattismo americano, come nota il critico Cesare Vivaldi in occasione della mostra personale di Ghilardi alla galleria Il Punto di Torino del 1973.
Nel 1975, Umbro Appollonio, presentando gli ultimi lavori che affrontano lo studio sulle dominanti dei colori mediante intrecci e spostamenti delle fasce colorate, con risultati di complementarietà e contrasto, in occasione della personale alla galleria Method di Bergamo, sottolinea come: “…il sistema ordinativo di estremo rigore si avvale di elementi che incorporano comunque una forte carica, qui propriamente cromatica, di aggressività”.
Insieme all’amico Alberto Zilocchi, alla metà degli anni Settanta partecipa agli incontri promossi dal Centro Internazionale di Studi d’Arte Costruttiva (Internationaler Arbeitskreis für Konstruktive Gestaltung) di Anversa-Bonn, con Marcello Morandini, De Portere, Lowe, Lohse e altri.
Nel 1980 realizza la prima grande scultura in vetro, dal titolo “ATMA”, inerente al progetto di sistemazione del cimitero di Stezzano che susciterà non poche polemiche per la modernità di concezione. In seguito, nel 1988, è incaricato della riqualificazione di piazza Libertà, del piazzale della chiesa e dell’auditorium dello stesso Comune dove l’artista risiede.
ricerca artistica, tecniche e materiali
Dal 1967 la pittura di Ghilardi cresce tra variazioni di forme sospese su sé stesse, quadrati che oscillano nel vuoto e diagonali che si proiettano oltre la superficie, con colori squillanti, rossi gialli e arancioni che danno intensità all’immagine e ne fanno un poema di equilibri compositivi instabili. Alla fine degli anni Sessanta, infatti, il clima sperimentale dell’arte italiana ed internazionale dichiara un netto rifiuto nel linguaggio pittorico, considerato superato e sempre più estraneo alle interpretazioni critiche all’attualità che la neoavanguardia propone, attraverso varie acrobazie sul linguaggio.
Nel 1971 nasce una serie di quadrati nel quadrato con colori acrilici e fluorescenti, una ricerca che si distingue per la presenza di un campo dominante centrale (rosso, verde, azzurro, viola, giallo, arancio) ai bordi del quale agiscono i margini di altrettanti quadrati sottostanti, secondo un meccanismo percettivo che fa pensare alle strutture di Albers ma, più verosimilmente, richiama le tensioni cromatiche di Stella.
A partire dal 1976 la ricerca di Ghilardi si sposta dalla superficie della tela alla parete quindi allo spazio, inteso come ambiente. La ricerca verte sull’analisi strutturale-geometrica come definizione e nuova caratterizzazione dello spazio interno. Questo studio si concretizza nella realizzazione di un “ambiente”, con nastri di alluminio verniciati in colori complementari e applicati alle pareti e al pavimento alla galleria Lorenzelli di Bergamo. Paolo Fossati, nel presentare la mostra, sottolineava come lo spazio venisse catturato “da parte di elementi qui e ora visibili e da elementi che si muovono al di là del visibile”.
Negli anni Novanta l’artista sperimenta l’assemblaggio di ferro, plexiglas, tessuto, in una originale ridefinizione dei confini tra quadro e scultura.
Gli ultimi anni sono dedicati alla pratica del papier coupé e del collage sotto plexiglas che Ghilardi sviluppa prevalentemente in opere di medio e piccolo formato.
Ghilardi è interessato a fissare l’energia del linguaggio geometrico, il fatto che minimi spostamenti possano produrre sconvolgimenti smisurati nell’assetto costruttivo, in modo che brevi deviazioni della regola formale possano sollecitare il ritorno all’ordine prestabilito, pur sapendo che il senso dell’immagine non è mai compiuto. L’artista si muove con disinvoltura dal progetto all’opera, sfrutta al massimo le metodologie che affrontano l’immagine da opposti punti di osservazione, si rende conto che la sua progettualità non è mai lineare ma sconfina e si apre ad altri percorsi del labirinto spaziale che si costruisce e si smonta secondo diversi ordini.
Anche nelle sue tempere su cartoncino, siglate AKR, il ritmo verticale e la vibrazione delle fasce cromatiche esprimono uno stato di eccitazione attraverso segni essenziali e colori luminosi, staccati l’uno dall’altro eppure reciprocamente necessari, tra continuità e interruzioni, linearità e slittamenti, collisioni e sovrapposizioni. L’azione del colore è primaria, non si rivolge solo all’atto di occupare una superficie data (una parete, la facciata di una casa, la parte di un corpo edilizio) ma si afferma nel dialogo con i valori luminosi dell’ambiente, con l’espansione del colore oltre i lineamenti definiti.
L’artista muore a Bergamo nel 2014.